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Poesie per Aeroporti e Stazioni

Scritti di Filippo Lubrano (previously "Quanto a lungo riesci a trattenere il fiato")

Mese

agosto 2015

Lisca

tinetto madonna

Non c’era lisca che fosse da sputare

Tra il pescato degli Spiaggioni

Potevi seguirlo con l’indice

Dalla calvizie della Serra

L’affanno del battello

Di fronte a telluriche scosse

Avverso il castello

Lasciata Tellaro.

È solo questione d’attesa

Arriverà settembre

E affonderemo i polpacci rossi

Nella tinta d’uva passita

Dai terrazzi grezzi

Strozzati tozzi ramarri verdi

Col lacciuolo d’erba cattiva.

Dirado io

Come il Golfo che è ancora in-continente

Prima di sfaldarsi in Palmaria, Tino, Tinetto

Sotto la Madonna dei mari pescosi

Di soetti, occhiate, acciughe

Saraghi e moscardini

Dov’è l’ultimo afflato di terra e licheni

E i coralli confinano con le sule

Dai piedi azzurri

Ma di azzurri diversi

Consta, questo mare

Fuori, sui balconi del borgo

Lenzuoli arresi alla bonaccia

Irretiti

A strascico

Nelle correnti ascensionali

Sospinte le rose dai venti

Non c’è più lisca

Che sia da sputare.

Tre uomini

pripyat

Saracinesca abbassata

Fuori che per un dito di luce da abat-jour

Dentro

Una signorina vestita a festa

Scialle rosso guanti lunghi guepière e cipria per i sorrisi da assalire

Canta arie di un tempo lontano

Le torri di Kiev

Le lande di Pripjat

Le dasvidanie a matriosca

Che continuano fino alla bambola atomo.

Tre uomini le sfiorano la vita inconsapevoli

Il primo ascolta le note del pianoforte uscire dalle intercapedini

Dalle griglie di maglia strozzate

Note cave

Note vuote

Poche.

Tre uomini le sfiorano la vita inconsapevoli

Il secondo sente il profumo del cavolo del Dnepr

Bollire nel rame delle pentole

Sconvolgere appetiti e pance appese.

Tre uomini le sfiorano la vita inconsapevoli

L’ultimo cammina di un passo non noto

Poi d’un tratto si prende in mano il cappello

Lo porta al cuore

Si appoggia al palo della sosta vietata

Rimozione coatta

Chiude gli occhi ma piano

Mette la mano al taschino

Ne estrae penna e taccuino

e scrive questa poesia.

Oggi no

Un-vortice-di-scale-extra-big-1569-529

No

Oggi no

Che non ti passerò a prendere per andare a cambiare il cellulare

O a prendere quei winnipù da attaccarci di lato

E nemmeno a cambiare il piano tariffario

No

Oggi no

Che non ti dedicherò poesie da 160 caratteri

E non ripasserò col dito il logo della Fiat sul clacson della mia macchina

Mentre – aspettandoti – immagino le tue ballerine a righe scendere le scale 3 gradini alla volta

Per limarne statisticamente le irregolarità.

E non mi chiedere di andare in soffitta anche stavolta

A scovare le cassette di fine anni ’80

Per guardare Kiss Me Licia

Solo perché lei pare che ti assomigli un po’.

No

Oggi no

Che non ti penserò passando davanti al civico 37 di via delle Rosine

Ci dovevo passare già per i cazzi miei, non ti credere

E se ho guardato su è solo perché avevo paura della signora del 3° piano

Che ogni tanto mentre annaffia i gerani

Fa colare l’acqua di sotto.

No

Oggi no

Non mi viene neanche da toccarti

Nemmeno da sfiorarti le mani

E fantasticare sul colore dei calzini che compreremo a nostra figlia

E se le faremo mangiare le schifezze come premio per i bei voti a scuola

O le daremo la mela da lucidare sul manico del grembiule, a ricreazione.

No

Oggi no

Che non guarderò i documentari di Liciacolò

Pensando a come ci accoppieremmo se fossimo nati

Ramarro e ramarra

Criceto e criceta

Opossum e opossa.

No

Oggi no

Che non ti dirò che è bene dormire ognuno dal suo lato

Che va bene far l’amore

Ma dormire è un’altra cosa.

No

Oggi no

Che non ti dirò che questa vita non è abbastanza

Le mie dita non sono abbastanza

E il tempo è scardinato.

Perché oggi

sarebbe vero.

Sally

Sally aveva un dito di legno

L’anulare, per precisione

Quello dove ci si deve mettere la fede, per dire,

Nel caso uno si sposi.

Sally la fede non ce l’aveva

Non che non fosse stata sposata, no

Anzi.

La prima volta era stata con Winston

Rito rastafari

il prete sulla spiaggia era fatto di marija

Non sono sicuro che la cosa avesse valore legale.

La seconda volta era stata con Elton

A Canterbury, dove hanno una certa confidenza con le favole

Stava anche funzionando bene

Si erano trasferiti in un loft vista Tamigi

Poi Elton fu beccato chiuso in bagno con John

“Dovevo immaginarmelo”, disse Sally

Che nonostante il dito di legno

era una che credeva ai simbolismi

E tendeva un po’ all’autocolpevolizzazione.

La terza volta era stata con Gino, il bagnino di Livorno.

Si erano conosciuti perché lei in mare aveva perso il dito di legno.

“Signor bagnino, ho perso il mio dito di legno in mare” le aveva detto Sally

Mostrando la mano a quattro dita.

“Boia deh” aveva detto Gino. Poi era svenuto.

Era stato in ospedale che si erano baciati per la prima volta.

Lei si era avvitata al dito un cacciavite che aveva staccato da un coltellino svizzero

Per non fargli più prendere paura

E io di atti d’amore così

Vi giuro

non ne ho visti più fare, poi.

Lui scappò quando lei le diede la notizia che più aspettava

Erano davanti ad un caciucco ed un bicchiere di Chianti

Lei sorrideva come solo le donne possono, in quei 9 mesi

Lui le disse “sto male”

Lei pensò fosse per il caciucco

E prese a maleparole il cameriere

Poi lui prese per il bagno

Ma ci stette forse un po’ troppo

Ora pare faccia il pescatore a Bergeggi

E vi assicuro che in pochi lo capiscono

quando impreca la Madonna e Gesù Bambino

A causa delle sue reti.

Fu quando Mina uscì dal suo grembo

Che Sally si ripromise che non sarebbe successo più

Capite

Che il dito di legno non avrebbe più sfregato contro nessun anello dorato

Scavandosi l’anima

Sì, credo proprio che fu lì che perse la fede

La voglia

La voce

Dio.

Ascensore – Istruzioni per l’uso

Ascensore – istruzioni per l’uso

Piano Terra.

Schiacciare il pulsante di prenotazione.

Basta una volta.

Signora, davvero, non migliorerà le cose.

Imprecare il Signore nemmeno, ragazzino.

Dirigersi verso l’ascensore 3, come da indicazione del segnale acustico.

Dare la precedenza alla signora, poi al fattorino che porta 20 chili di corrispondenza a braccia.

Entrare nel vano.

Chiedere a tutti a che piano sono diretti.

Non ottenere nessuna risposta.

Premere solo il proprio piano.

Fanculo.

Primo piano.

Barattare la signora impaziente con un tamarretto che mastica gomma e punta all’acufene con auricolari dr. Dre a 185 decibel.

Aspettare la chiusura delle porte, passivamente.

Secondo piano.

Sapere in anticipo che il tamarretto avrebbe preso l’ascensore per fare un solo piano.

Ah, quand’ero giovane io!

Palle

Quand’ero giovane io avrei preso l’ascensore anche per muovermi in orizzontale.

È ora che mi è venuta la fissa della pancetta.

Terzo piano.

Aggiornare il conto totale dei passeggeri: tre entrano, uno esce.

Ridistribuire equamente il peso nel vano cercando di controbilanciare l’entropia della collocazione altrui.

Sentire nitido un afrore nell’aria.

Controllare senza dare nell’occhio che non provenga dalle proprie ascelle.

Ecco, così, impercettibilmente, fare finta che ti pruda il naso.

Decontrarre i muscoli, aspettare qualche istante fino a quando non si aprano le porte del

Quarto Piano.

Fissare le scarpe dell’ultimo entrato.

Chiedersi quale inciampo della vita l’abbia portato ad abbinare un calzino a righe blu con scarpe lucide nere.

Seguire le scarpe scomparire oltre la soglia per essere sostituite da un tacco otto, calza a rete, maglie fitte.

Avvertire l’afrore soccombere sotto una fragranza aggressiva, forse Narciso Rodriguez.

Non staccare gli occhi da terra, mai.

Tossire lievemente, nel caso in cui qualcuno cominci un abbozzo di conversazione.

Tendere l’orecchio verso un qualsiasi cigolio.

Non pensare al lungo parallelepipedo di vuoto sotto i nostri piedi, ora.

Reprimere la vertigine.

Intravedere una spallina del reggiseno di Lei apparire da sotto la maglia di flanella ocra.

Controllare il formicolio della gamba sinistra.

Aderire alla parete quando una voce dietro chiede “scusi” per guadagnare il

Quinto Piano.

Scorgere con la coda dell’occhio il neo che rende asimmetrico il suo viso, appena sotto la narice destra.

Arrestare la sudorazione in eccesso.

Avvertire gli scostamenti d’aria provocati da ogni ravvio del suo ciuffo biondo.

Auscultare il silenzio di cinque fiati in una cabina bloccati, sincronizzarsi su uno solo.

Fare perno sulla suola destra per guadagnare gradi di visibilità sul suo collo

Essere improvvisamente scoperti da un brusco segnale che annuncia l’arrivo al

Sesto piano.

Evitare di contare i secondi di convivenza forzata che restano a disposizione

Intravedere – o forse immaginare? – un sorriso timido allargarsi sul suo volto

Sovrastimarlo rivolto a te

Guardare gli altri due

Far finta di non guardare lei

– un esercizio che a lei riesce benissimo

Dedurre fiori d’arancio, un pullmino della Volkswagen fuori dalla Chiesa,

gli scherzi degli amici al taglio della torta

la mascherina per la sala parto, e l’emozione di vedere un neo minuscolo, sotto un naso minuscolo

chiudere gli occhi per chiudere insieme la porta della camera da letto

corredo bianco, mobili bianchi, la luce delle pubblicità della Nivea

riaprire gli occhi e vederla già svoltare verso il corridoio,

mentre l’ascensore sta per riprendere la sua corsa verticale

Guardare la propria ventiquattrore in mano, il badge nell’altro

Avvertire la sorpresa delle risorse umane al primo ritardo della propria vita.

Schiacciare il tasto che arresti la chiusura delle porte.

Gettarsi nel corridoio alla rincorsa dell’eco di un tacco otto

Seguire una fragranza aggressiva, forse Narciso Rodriguez.

Respirare.

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