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Poesie per Aeroporti e Stazioni

Scritti di Filippo Lubrano (previously "Quanto a lungo riesci a trattenere il fiato")

Fuori dalla Finestra di una Stanza a Samarcanda

IMG_6727.jpgFuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
I cavalli sudano sangue,
Come quel giorno nella valle di Fergana
È un inganno minore, un trucco da caravanserraglio
Da cacciatori di pecore di Marco Polo.
Fuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
Gli alberi sono in cenere
Non potevo salirli perché non so come si fa
Nessuno me l’ha insegnato.
– E mi spiace oggi essere qui, mi spiace non esserci.

Ma quand’è stato il momento in cui
Il concetto di promessa
Ha superato
Quello della speranza?

Fuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
16 milioni di uomini hanno lo stesso DNA di Gengis Khan
A esplicitare la cifra del nostro onanismo
Fuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
Tipi di frutta secca di cui ignoravamo l’esistenza
E che ora costituiscono la base della nostra nuova dieta
Uva sultanina, halva, qualcosa di disidratato, digiuno.
Fuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
Le pisciate notturne nel deserto
In piedi, l’aria della sfida resa ridicola dal sostegno del membro
L’orrore degli scorpioni.

Fuori dalla finestra di una stanza a Samarcanda
I nidi finti delle cicogne inibiscono la riproduzione
Accogliendo al contempo tutte le cose che non riesco a contenere
Tutte quelle che non mi riescono a contenere.

Dentro la finestra di una stanza a Samarcanda
Il mio riflesso con filtro islamico
– E scusa se assomiglio a qualche tuo parente
E anche a qualche mio
Il nostro compito generazionale è di evolvere
Ma non possiamo esimerci dal possedere radici.

Le altre lezioni le ho dimenticate
Fuori dalla finestra di una stanza

a Samarcanda.

Tutto Quello che Credevamo Non Separabile

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Tre sono i tipi di uomini per i Greci:
i vivi
i morti
e quelli che sono in mare.

Da quando mi sono specializzato nel mancare
Non ho mai dedicato più di un’ora a nulla
Prima di passare ad altro:
I video del megalodonte col tirannosauro
L’alfabeto in sanscrito
Le emanazioni della foglia del lauro.

Ma il tuo silenzio è il mio cuscino

Lo tengo caro sotto agli occhi
Sotto le palpebre una guerriglia
Disseziona il sentimento,
La sbronza, il parapiglia.

[I tatuaggi sbagliati io non li ho sulla pelle
Ma cerco ancora qualcuno che abbia voglia di leggerli
Compiangerli
Prendersene cura 
Con la premura di chi si posa sulle cose 
Come un’agente atmosferico, 
Un nuovo detergente 
Oppure niente
La nebbia in Valdobbiadene
Non s’annuncia, si sente.]

Hai presente tutto quello che credevamo non separabile?
Lo era:
L’atomo
L’individuo
Noi.

Tre sono i tipi di uomini per i Greci:
Anche chi ha preso il largo per scappare
S’unirà ai coralli, poi.

È Venuto il Tizio Che Hai Mandato

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È venuto il tizio che hai mandato
Mi ha consegnato la lettera,
Se n’è andato.
È venuto il tizio che hai mandato
Aveva una camicia a quadri simile alla mia
Gliel’hai data tu?
Era in bicicletta
Se n’è andato.
È venuto il ragazzo che hai mandato
Sembrava innervosito
Gli ho chiesto di te
Non mi ha voluto rispondere.
È venuto un ragazzo
Dice l’hai mandato tu
Mi ha chiesto scusa per te
Per tutti i tuoi errori
Dice che veniva al posto tuo.
È venuto quel ragazzo
Credo l’abbia mandato tu
Aveva la giacca stropicciata
Mi sono offerto di stirargliela
Rammendargli le tasche dei pantaloni
Mi ha lasciato la tua lettera
Se n’è andato
Non l’ho ancora aperta.
Quel signore anziano che hai mandato
Lui
È arrivato
L’altra mattina, pioveva
Ma ha sbagliato indirizzo
Ha consegnato il pacco alla vicina di casa
Ho provato a fermarlo
L’ho rincorso per strada
Se n’è andato.
È arrivato l’idraulico che hai mandato
Ha sostituito il manicotto
Sturato il lavandino del bagno
Non ha voluto parlare di te
Se n’è andato.
Il professore che hai mandato è arrivato
Gli ho offerto il tè al crisantemo
L’ha bevuto quando ha finito di parlare
Era ancora tiepido.
È arrivato il vetro sostitutivo che hai mandato
L’ho montato da solo
In camera fa ancora molto freddo.
L’acero canadese che hai mandato è arrivato
Ha i rami tozzi
Le foglie mutano al rame
Non ho ancora provveduto a potarlo.

È arrivata la tempesta che hai mandato
L’ho attesa in piedi, sul terrazzo
Non faceva più così freddo poi
Quando se n’è andata.

Ti Porterei Qui

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Se il mondo stesse per implodere in una supernova
Una supernova di champagne, come cantavano loro
Se il mondo stesse per finire nel giro di due settimane, diciamo
– E come se non lo stesse già facendo
Ti porterei qui
Il prossimo weekend
Se non potessimo attendere i Giorni delle Lanterne
Qui
Dove i grattacieli soffrono di anoressia
E s’appoggiano a stampelle di bambù.

Qui, ti porterei
Dove le scoliosi e le sciatalgie si curano con bicchieri sottovuoto
– si sottrae per donare, l’ho imparato qui
E le schiene diventano giochi di dama.
Non avremmo messe la domenica
Solo incensi da portare al tempio
Le ciotole di riso con le bacchette ad antenna
– I nostri parafulmini divini.

Questa sarebbe la nostra ultima città
Oltre la quale non ci sarebbe bisogno di spingersi:
Faremmo gite fuori porta sul ponte che si inabissa, prima di tornare se stesso
E avremmo copie di ogni nostro bene in carta di riso;
Ci ricorderemmo sempre che ai bimbi non bisogna mai toccare la testa.

Se ti sentissi sola, potresti andare a passeggiare fino ai Nuovi Territori
Ci sarebbe sempre qualcuno con te
A condividere la Scoperta:
Un monaco, un banchiere, una domestica, un animale raro.

Ma non ci sarà nulla di questo,
Nessuna estinzione di massa
Non almeno nell’immediato
Neanche una supernova
Lo champagne, poi, è un bene vebleniano che sopravvalutiamo
Ci saremo noi due, ancora seduti sul tappeto a triangoli isosceli,

Al buio

Mentre facciamo finta di non capirci
E di riderci su
E a gara di chi sta più abbastanza bene
Mentre il cielo
Sprovvisto su quel meridiano di stampelle di bambù
Ci prenderà per l’occipite
Con le sue mani di portoro
Un pianto di cherubino come colonna sonora e unica coordinata geografica
Senza
badarci
alcuna
premura.

I’d Bring You Here

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Would the world be close to a Supernova implosion
A Champagne Supernova, as they used to sing
Would the world be about to end up in a couple of weeks, say
– wouldn’t it already be happening
I’d bring you here
Over the next weekend
Wouldn’t we be able to wait for the Lantern Days
Here
Where the skyscrapers are anorexic
And they rely on bamboo crutches.

Here, that’s where I’d bring you
Where scoliosis and sciaticas are healed with vacuum cups
– you have to subtract to donate, I learned it here
And human backs become checkers game.
We wouldn’t need masses on Sundays
Just incenses to be brought at the temple
Rice bowls with antenna chopsticks
– Our divine lightning rods.

This would be our last city,
The one after which we would feel no need to move forward:
We would go for picnics where the bridge dives into the sea
Before becoming itself again
And we would have rice paper copies of all our belongings;
We would remember that kids are never to be touched on their heads.

Should you feel lonely, you could just go for a walk to the New Territories
There would always be someone with you, to share the discovery:
A monk, a banker, a maid, a rare animal.

But none of this will happen eventually
No mass extinctions,
Not that fast, at least
No supernovas
What about Champagne, then?
It’s just a Veblen good, definitely overestimated.

It will just be the two of us,
sit on that very isosceles-triangle-shaped rug,

In the dark

While we pretend not to understand each other
And laugh about it
Challenging each other’s leadership on who’s feeling more ‘more or less good’
While the sky
Unprovided with bamboo crutches on that meridian,
Will take us by the occiput
With its portoro hands
A cherub’s cry as only soundtrack and geographical coordinate
Without
Paying us
The over-expected
Attention.

Lettera a Una Figlia Nata Sul Mare

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Ora che esisti
Ora che sei evidente

Una persona nuova

E galleggi nel mare della vita
E il mio ruolo è di tenere la mano sotto la tua pancia
Finché non saprai farlo da sola

Ricorda
Quando sarai al largo

D’imparare a distinguere i pesci per nome:
Così che dove gli altri vedranno l’omogeneità dell’acqua
Tu vivrai
Viva
La Fiera di Poseidone.

E diffida sempre dei fondali troppo compiacenti
Che invitano all’ancoraggio:
È lì che attentano le meduse più urticanti
le secche più spaesanti.

Impara la fedeltà dal parabordo
Che serve solo la sua nave
E non bada alle torture del molo.

Nella burrasca, non misurare mai l’altezza delle onde
Ché quel che conta non è l’intensità dei marosi
Ma quanto perdura il loro ricordo
nello sguardo di chi li contempla.

E disponiti da subito alla siccità,
Così che ogni giorno di pioggia
Sarà un giorno a cui brindare.

Riconosci poi la tua corrente,
Accettane il conforto sciamanico.
Ma quando la linea della vita sul tuo palmo
Ti apparirà estranea
Non esitare a impugnare il serramanico
Per tracciarne una nuova, mediterranea
– Come già fece Corto, da Malta.

E colleziona i ricordi dell’esistenza
Come fanno i fondali:
Senza catalogarli,
Scevri di rimpianti
Vergini da speranze.

Cerca il criterio che per te più vale
A misurar la vita:
Che sia il peso del pescato
La minimizzazione del rischio sismico
La vicinanza a una fonte potabile.

Sii sempre boa, mai bitta:
Esposta
Libera di seguire le correnti
Memore dell’ingombro salvifico da cui provieni
Salda, fluida, dritta.

Non lasciarti mai delimitare da aggettivi terreni:
Buona, acuta, bella, sconosciuta.
Fatti corteggiare solo da chi ha la pelle d’alghe e licheni
E ancora odora di salmastro.

Conduci la tua vita come il guardiano del faro:
Per quanto in solitudine
Regalando la luce intorno a te.

Osserva e annota le squame del dentice
Battezza i ciottoli di pietra pomice
Salmodia gli incroci taumaturgici delle nasse
Celebra il teatro delle pescherie.

Accogli la vita,
come il porto riceve il mare.

E se mai dovrai farti stretta
Come il canale
Sii sempre l’acqua che unisce,
Mai lo stagno che divide.

tutto in minuscolo

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tutto in minuscolo

Tra le cose assurde che facciamo
C’è che respiriamo
Per tutta la vita
In continuazione
Senza motivi apparenti.
È perché c’è stanchezza nelle parole
Che gli uomini usano sempre le stesse
I costrutti già pronti
Quand’è stata l’ultima volta che hai chiesto
Come stai
E ti sei fermato ad ascoltare?

Con te, le parole ebbre
Con te, le labbra prone
Noi – capaci di forgiarle
Tramutarle in prole
Da crescere tra i bonsai
tutto in minuscolo
tutto in minuscolo.

hai fatto alla mia vita
quello che le corbusier fece con l’architettura
non c’era parigi
prima che tu cantassi mina
sotto la mia doccia.

‘in che anno vorresti morire?’ ci domandammo
ché le domande sono lo sperma delle conversazioni
userò con te l’accortezza degli avverbi di dubbio
anche quando sarò sicuro
e farò di tutto per non conoscerti mai
ché è con gli estranei che diamo sempre il meglio.

tra le cose assurde che ho fatto
c’è stato lasciarti su quel pianerottolo
perché non riuscivi a capirmi
ora che sei l’unica
che vorrei non tacesse.

è verosimile, che all’alfiere io preferisca il cavallo
magari è meglio non beva altra birra
probabilmente tornerò nel Quarto Vuoto
forse ti amo
e certo
certo
le nuvole sopra pigalle non ci faranno ombra.

 

A Forma d’Islanda

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In questo Paese in cui i senzatetto usano il congiuntivo
E nel cielo c’è una nuvola a forma d’Islanda
Vorrei varare un mestiere aggiuntivo
Che paghi non le mie azioni, ma la mia abilità nel porti una domanda.

Ricordi come stavo il giorno in cui mi cercasti
L’ultimo pomeriggio inconsapevole a degustare bottiglie
Senti questa Bonarda! E il Barbera d’Asti?
poi il tuo messaggio che ostruiva dighe, rovesciava chiglie.
Quel termometro in mano
Che non contava i gradi
Io, deliscato sul divano,
Un pezzo del Tetris che ignoravi
Ogni riga, un codice di Hammurabi.

Ci sono ancora, oggi
Che il sorriso di circostanza ne ha creato uno vero
Ci sono ancora, oggi
Che ‘vero’ non vuol più dire quello che voleva dire 6 mesi fa
Ci sono ancora, oggi,
Ancora, qua
Mentre hai bisogno
Tu che non avevi mai bisogno
Mentre mi concentro sui crateri
Mentre mi sottraggo ai miei doveri
Mentre immagino dov’eri
Lo scorso anno
Quando il radar dei tuoi occhi non mi aveva paralizzato ancora
Mentre immagino dove saremmo, ora
In Islanda, su una nuvola analoga
in Uzbekistan su un cavallo a strisce
alla Foce, a raccogliere un fico, una fragola
Mentre Pavarotti nitrisce
Il tuo sguardo distante che mi zittisce
Oppure altrove, altrove
Una voce che si chiede dove
Sia l’altra, ad oltranza
Cercarsi nel letto – ma di un’altra stanza.

Guarda Come

Tartarughe-Paestum
Guarda come spero
Meglio di chiunque altro
Nonostante le evidenze quotidiane
Follemente concentrato sull’impresa
come il piccolo di tartaruga espulso dall’uovo
Nella spiaggia dei varani.

Guarda come sono convinto
com’è fermo l’indice mio
Quando punta te
– scegliendoti, sciogliendoti
Per godere della colpa di aver scartato tutti gli altri,

Guarda come catalogo ogni mio pensiero
Per numero di shock pregressi
E ore di solitudine necessarie a processarli
– Ogni nostro gesto è rivolto alla Madre
Dal giorno in cui togliemmo i braccioli.

Guarda come è tutto vero
Finché la Parola non si assembla in Manifesto
Finché la Poesia non diventa Editto.

Guarda come sorride quel pettine sul tavolo
Ricordo esule di quando lei era qui
E tutte le notti, e tutti i giorni
E tutte le notti e i giorni
Mi faceva rientrare nel Paradiso terrestre
La mia Eva abusiva
Non ti scopriranno
Non ci scopriranno
Non ci scopriranno
Fino a quando non copuleremo
Nella cambusa del gozzo di Noè
Scelti da nessuno
Per perpetuare la specie.

Guarda come faremo dei nostri palmi remi
Nei continui guasti meccanici
Per girare in tondo
Vorticando, un uragano liquido
Tentando di sprofondare
Guarda come
Useremo Dio
Per odiare gli uomini.

Guarda come sono bravo a trovarti
Anche dove non avresti pensato di scappare
Dopo l’ultimo litigio
Sei nella coppia di anziani con la sedia in plastica
Sul marciapiede della statale
A fianco della casa cantoniera
Quella coppia siamo noi
Se i polimeri reggeranno a sufficienza.

La verità risiede solo nel quinto trimestre
– quello del maggese
E questo è quanto.

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